Fotografiamo tutto. Condividiamo (quasi) tutto. Centinaia se non migliaia di scatti popolano non solo le memorie dei tuoi dispositivi, ma i profili dei social network, Facebook e Instagram in particolare. Anzi: la maggior parte di quegli scatti nasce proprio per finire su quelle piattaforme. Bene, se filosofi e sociologi ti avvertono da tempo del fatto che quest’abitudine ti allontana dallo sperimentare davvero ciò che vivi, dal ricordarne il sapore anche fra qualche anno smarrendo l’esperienza per strada, ora anche la scienza lancia l’allarme. La bulimia fotografica può fare male alla memoria. Molto male.
A raccontarlo nel dettaglio uno studio firmato da Linda Henkel della Fairfield University, istituto gesuita del Connecticut, intitolato Point-and-Shoot Memories: The Influence of Taking Photos on Memory for a Museum Tour, e pubblicato sulla rivista Psychological Science. Quando fotografiamo qualcosa siamo più predisposti a dimenticarla nel complesso e a perderne le caratteristiche. Perché ci affidiamo troppo alla tecnologia. Tanto da dar vita a uno specifico disturbo battezzato dalla scienziata “photo-taking impairment effect”, effetto di indebolimento della memoria da foto: “Quando le persone confidano sui dispositivi tecnologici affinché ricordino per loro conto, evitando di partecipare appieno ai momenti che vivono”, ha spiegato Henkel. “Rischiano un impatto negativo sul modo in cui archivieranno quelle informazioni”. Insomma: più scatti più scordi. Bel pasticcio.
Come è stato provato? In un esperimento andato in scena in un museo, precisamente il Bellarmine Museum of Art dello stesso ateneo statunitense. La ricercatrice ha condotto un gruppo di studenti in un tour per le gallerie, domandando loro di ricordare alcuni elementi di alcuni quadri. In certi casi scattando una foto, in altri affidandosi semplicemente alla contemplazione diretta del dipinto. La controprova è arrivata solo il giorno successivo, quando la psicologa ha sollecitato la memoria dei giovani con dei questionari: i ragazzi sono stati assai più carenti nel riportare alla memoria i lavori fotografati piuttosto che quelli semplicemente osservati. “La gente sfodera ormai automaticamente le propria fotocamera per immortalare qualsiasi istante”, ha aggiunto la scienziata. “Fino al punto di perdere del tutto ciò che succede di fronte a sé”. Non è un caso se, assai più prosaicamente, qualche tempo fa diverse rock band hanno iniziato a consigliare di lasciar perdere scatti e riprese nel corso dei concerti, o a riservare alle foto solo alcuni momenti. Avevano iniziato i Black Crowes, seguiti da Yeah Yeah Yeahs, Jack White degli White Stripes e, più di recente, dal duo She & Him: “Per favore, non guardate lo spettacolo tramite un display”.
Non finisce qui.

(Foto: jgoge / Flickr CC)
La scienziata americana ha messo nero su bianco anche altri risultati delle sue osservazioni In uno di questi, salva in parte il ruolo delle foto. A patto che si concentrino sui dettagli. Che significa? La studiosa ha notato che quando gli studenti hanno immortalato una parte specifica di un’opera sono riusciti in qualche modo a preservare la memoria dell’intero lavoro. Come se il dettaglio, punto di analisi e di approfondimenti emotivo, avesse funzionato da gancio per risalire all’interezza dell’oggetto. Meglio un po’ di zoom, insomma, dello scatto compulsivo all’opera intera e avanti un’altra. Ma possono esserci anche altri aspetti significativi, in questa valutazione complessiva, tutti ancora da scoprire. Per esempio il tipo di soggetto immortalato. Probabile, per esempio, che con esperienze più immersive – proprio come quelle dei concerti o di un evento ad alto tasso affettivo – il deleterio effetto sulla memoria possa uscirne ridimensionato.
Attenuanti a parte, l’idea di scattare foto in modalità-archivio (per la serie, non scordo nulla, tanto le rivedo più tardi) fa comunque acqua da tutte le parti: “La ricerca ha anche suggerito che la mole e la scarsa organizzazione degli scatti digitali scoraggia molte persone dal consultarle di nuovo in seguito e quindi di farsi aiutare a ricordare”, ha concluso la psicologa. “Insomma, per farlo dovremmo accedere e interagire con le immagini, anziché ammassarle senza sosta“.
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